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La distinzione tra fattibilità giuridica ed economica del piano

Aggiornamento: 11 apr 2019

Il tema fatto oggetto quest'oggi di approfondita indagine, attiene la querelle giurisprudenziale generatasi in merito alla dicotomia tra i concetti di fattibilità “economica” e di fattibilità “giuridica”, nonché all’applicazione al concordato preventivo della nozione di “causa concreta”, anche alla luce del nuovo scenario introdotto dalla riforma.

Ripercorrendo l’indagine sviluppata è necessario, in premessa, soffermarsi sull’istituto del concordato preventivo per coglierne le principali caratteristiche ed anche per introdurre ad alcune argomentazioni poi rivelatesi di utilità.

Il concordato preventivo è, dunque, una procedura concorsuale, di certo quella più complessa ed adoperata, e si presenta come lo strumento utilizzabile dall'imprenditore, in crisi o in stato di insolvenza, volto ad evitare la sua dichiarazione di fallimento.

Esso si realizza attraverso un accordo finalizzato a consentire una qualche soddisfazione, anche parziale, delle ragioni creditorie e prevede due distinti istituti: il concordato preventivo liquidatorio e il concordato preventivo con continuità aziendale.

Il primo, derivazione del precedente istituto nato con il codice del 1942, è destinato a quelle situazioni di crisi non più reversibile ed ha quale finalità la soddisfazione dei creditori nella miglior misura da realizzarsi attraverso la alienazione del patrimonio sociale ( anche magari con innesto di nuova finanza); può prevedere diverse articolazioni, comunque liquidatorie ed in ogni caso non persegue finalità di prosecuzione dell’attività aziendale, evidentemente in quanto non ne sussistono più le condizioni.

Il secondo, vero elemento di novità introdotto con il d.l. 22 giugno 2012, n. 83, poi convertito nella l. 7 agosto 2012, n. 134, è destinato comunque alla soddisfazione dei creditori, ma, sussistendone i presupposti, tende a perseguire anche l’altro nobile fine della salvaguardia dell’attività aziendale e, in quanto possibile, dei livelli occupazionali.

Attualmente disciplinato dall’art. 186 bis l.f., “prevede la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, la cessione dell’azienda in esercizio ovvero il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione”.

Quanto agli aspetti procedurali il concordato preventivo, sia esso liquidatorio o di continuità, si articola in diverse fasi, di cui una prima, sostanzialmente introduttiva, che prevede il deposito al competente Tribunale della domanda di ammissione al concordato corredata da una serie di allegati obbligatori previsti dall’art 161 comma 2 della l. fall.

Tra questi merita ricordare ai fini della presente disamina la relazione di un professionista indipendente, scelto dal debitore, in possesso dei requisiti di cui all'articolo 67, terzo comma, lettera d), che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo.

Prevedendo, tra l’altro, la facoltà per il debitore di presentare, in prima battuta, una domanda di concordato incompleta, dando vita a quello che viene atecnicamente definito concordato “in bianco” o anche “ concordato prenotativo” o ancora “concordato con riserva”.

Alla domanda segue il preliminare controllo giurisdizionale volto ad accertare la ricorrenza, o meno, dei presupposti richiesti dagli articoli 160 e 161 l. fall.; con la conseguenza che, in caso di vaglio positivo, il Tribunale dichiara aperta la procedura di concordato preventivo ex art. 163 contestualmente nominando gli organi della procedura.

Diversamente, se la proposta vene respinta, il Tribunale, con decreto, dichiara inammissibile il concordato preventivo e, se vi sono ricorsi di fallimento pendenti, valuta la sussistenza dei presupposti per dichiarare, con separata sentenza, il fallimento del debitore ex art. 162 comma.

All’apertura della procedura seguono, l’adunanza dei creditori ( tenuti ad esprimere il loro parere sulla base del consenso informato da parte del Commissario Giudiziale) e, in caso di raggiungimento della maggioranze, l’avvio della fase del giudizio di omologazione.

Ben si comprende, allora, dove, nel panorama illustrato, vada a collocarsi il tema qui indagato della “fattibilità”; ovvero all’atto del primo vaglio del Tribunale in occasione della decisione sulla apertura della procedura, ed anche a quello successivo del giudizio di omologazione.

Epperò l’esercizio non è stato agevole anche per la scarsa attenzione mostrata dal legislatore nel definire e delineare un concetto chiaro di fattibilità.

L’elemento si ritrova espressamente indicato esclusivamente agli artt 161, comma 3 l. fall. ( relazione di un professionista indipendente che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano); 163, comma 4 l. fall., ( relazione del professionista limitata alla fattibilità del piano per gli aspetti che non siano oggetto di verifica del commissario giudiziale); 179 l. fall. ( seppur residuale in materia di sopravvenienze capaci di incidere sulla fattibilità).

Pur dovendo però riconoscere alcuni riferimenti indiretti nella relazione del commissario giudiziale sulla proposta e sulle garanzie offerte ai creditori, ex art. 172 e 173 L.Fall. ; nella richiesta di autorizzazioni a contrarre finanziamenti interinali urgenti ex art. 182 quinquies l. fall., in mancanza dei quali il concordato diventerebbe non fattibile; nella richiesta di pagamento dei creditori anteriori strategici, qualora fossero essenziali per la prosecuzione della attività di impresa, ex art 182 quinquies l. fall., e dunque per la fattibilità dell’intero concordato; o ancora nel requisito di ammissibilità del nuovo 4 comma dell’art.160 dell’assicurazione del pagamento di almeno il 20% dei creditori chirografari, requisito in mancanza del quale verrebbe meno un presupposto di fattibilità; nella verifica, infine, ex art. 162, comma 2, L.Fall, della sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 160, commi 1 e 2, e161 l.fall.

Il vero è che esso rappresenta un concetto di espressa matrice economica e, nel caso del concordato preventivo, “prestato” alla valutazione giuridica.

Ed è proprio l’assenza di una definizione univoca del concetto di “fattibilità” nella legge fallimentare che ha, sin dai primi tempi di applicazione dell’istituto concorsuale, determinato una intensa produzione giurisprudenziale che si è sostanziata in tre contrapposti orientamenti che in sintesi possono così riassumersi:

Il primo, teso ad attribuire al Tribunale poteri di controllo della sola legittimità formale in relazione alla regolarità e completezza della documentazione allegata dalla parte proponente e alla correttezza della procedura; controllo definito di carattere pressoché “notarile”, circoscritto cioè alla verifica della completezza e della regolarità formale della documentazione depositata dal debitore ai sensi dell’art.161 L.Fall.; il secondo, di matrice pubblicistica, che riconosce all’organo giurisdizionale poteri di valutazione “sostanziale”, potendo sindacare, al momento dell’ammissione alla procedura e in sede di omologazione, sia la serietà, la completezza e la complessiva attendibilità della relazione del professionista, sia la concreta fattibilità del merito del piano concordatario ( c.d. controllo in modo diretto e di “primo grado” effettuato non sull'atto-relazione, ma proprio sul requisito della fattibilità); il terzo, che propone una soluzione di equilibrio riconoscendo al Tribunale un potere di controllo di legittimità sostanziale ( c.d. controllo solo “indiretto” sulla fattibilità attuato attraverso la valutazione della sola relazione attestativa in termini di manifesta comprensibilità, coerenza, logicità e di capacità esplicativa dell’iter metodologico seguito) ed avente ad oggetto diretto la relazione e non la fattibilità in sé stessa.

Tesi, quest’ultima, obliterata dalla dottrina più accreditata la quale ha condiviso che il controllo devoluto all'organo giurisdizionale “si estrinseca in un esame sulla validità e sulla affidabilità del giudizio del professionista asseveratore e sul rispetto di quel necessario paradigma normativo teso ad individuare la struttura tipo della relazione medesima e non anche in merito al contenuto tecnico della stessa”.

Nel quadro sopra delineato, creatosi il contrasto interpretativo all’interno della Prima Sezione sui limiti del potere di sindacato del Tribunale in ordine alla fattibilità del piano di concordato preventivo, la Cassazione a Sezioni Unite in data 23 Gennaio 2013, n.1521, è intervenuta introducendo, per la prima volta ed in maniera per vero opinabile, la distinzione tra “fattibilità giuridica” e “fattibilità economica” del concordato, circoscrivendo il sindacato del Tribunale alla prima e lasciando ai creditori la valutazione della seconda.

Nel dictum della Cassazione la fattibilità giuridica si concretizza nell’”impossibilità dell’attuazione del piano o della proposta concordataria per contrasto dei relativi contenuti con norme inderogabili”; o in alternativa “l’inidoneità del piano a consentire il superamento della crisi di impresa ed a garantire un minimo soddisfacimento dei creditori chirografari”, in altre parole, il rispetto della “causa concreta”.

La cd. “fattibilità economica” viene invece individuata come “prognosi circa la possibilità di realizzazione della proposta nei termini prospettati”.

Ma neppure tale soluzione è sembrata immune da censure.

Se da un lato la giurisprudenza di legittimità ed autorevole dottrina si sono uniformate totalmente alla tesi enunciata dalla Cassazione a Sezioni Unite - ritenendo che il compito principale del Tribunale è quello di valutare se il piano e la proposta siano o meno compatibili con l’impianto normativo che regola il concordato preventivo-, più restia è stata la giurisprudenza di merito che, nelle pronunce immediatamente successive, non sempre ha mostrato di conformarsi.

Una parte di questa, ha sostenuto che all’organo giurisdizionale competeva fondamentalmente, di giudicare se il piano fosse “attendibile” e se ricorresse la “fattibilità giuridica” del piano; la quale deve essere intesa, però, non nel senso di conformità degli atti e del programma delineato dal piano a norme imperative, bensì nel senso che il piano deve esser “serio, ovvero concretamente realizzabile sulla base delle risorse….” ; altra parte della giurisprudenza di merito ha ritenuto di discostarsi totalmente dal pensiero espresso dalle Sezioni Unite, tanto da affermare che la distinzione tra fattibilità giuridica e fattibilità economica dovrebbe considerarsi superata.

Citando una eloquente espressione utilizzata da Corte d’Appello di Firenze nella pronuncia del 6 Dicembre 2016 “la locuzione “fattibilità giuridica” invero non sta nella legge, nasce dalla creatività dell'interprete al fine di sottrarre al giudice il potere/dovere di valutare la fattibilità economica della proposta concordataria, ma appare un mostro semantico, una sorta di ircocervo, come sarebbe l'abbinamento inverso di “giuridicità fattuale”. L’aggettivazione infatti, non solo è testualmente arbitraria, ma si pone in antinomia col sostantivo.”

A questo punto si impone la necessità di ritornare su due concetti fondamentali e sempre richiamati, ovvero quello di causa concreta e di attestazione di fattibilità.

Quanto alla prima va ricordato che essa viene in evidenza in quanto espressamente richiamata dall’intervento nomofilattico che, di fatto, attinge dallo schema procedurale del diritto civile.

Ed anche qui la situazione non è del tutto pacifica considerato che nel codice vigente non si rinviene alcuna definizione specifica del termine “causa”.

Di “causa” si parla all’art. 1325 c.c., allorquando la si indica, in uno ad accordo, oggetto e forma, quale elemento essenziale del contratto, la cui mancanza dà luogo a nullità strutturale ex art. 1418 comma 2 c.c.; rendendosi, tra l’altro necessario che essa sia espressamente enunciata.

In un contesto favorevole alla qualificazione di negozio astratto, si è poi affermata, con il contributo del giurista Luigi Ferri – non senza critiche ed opposizioni –, il concetto della c.d. causa concreta, quale funzione economico-individuale, ossia concreta composizione di contrapposti interessi che vengono contestualmente soddisfatti mediante l’operazione contrattuale.

La causa concreta assume pertanto una doppia valenza; in primo luogo è un’utile strumento al fine di verificare se il negozio - sia nella sua fase genetica sia nel suo previsto sviluppo - appare come un’operazione, secondo razionalità, coerente e sensata, alla luce degli interessi che le parti vi hanno dedotto e del modo in cui hanno voluto bilanciarli; di più consente di accertare che l’assetto d’interessi perseguito col negozio - oltre ad essere coerente e razionale rispetto alla logica relazionale delle parti - non sia contrario ad un interesse generale dell’ordinamento.

Adattando il concetto al concordato preventivo, la nozione di causa concreta, dunque, può essere concretamente espressa, come: “l’idoneità del piano a consentire il superamento della crisi di impresa ed a garantire un minimo soddisfacimento dei creditori chirografari”.

Poiché, però, il legislatore ha lasciato nella creazione del piano un largo margine di discrezionalità, non è possibile stabilire con una previsione generale e astratta i margini dell’intervento del giudice, e quindi si dovrà tener conto delle concrete modalità pianificate dal debitore per il ripianamento della propria esposizione debitoria, fermo restando che la proposta di concordato deve necessariamente avere ad oggetto il superamento della crisi e la soddisfazione in qualche misura dei creditori.

Nel tentativo, sostanzialmente imposto dall’arresto della Cassazione del 2013, di adattare il concetto di causa in concreto all’istituto concorsuale del concordato preventivo, si può ipotizzare, a livello pratico, come, nel caso in cui il piano si riveli manifestamente inidoneo al proprio scopo concreto alla luce degli interessi dei contraenti, il concordato dovrà essere tacciato di nullità per mancanza di causa.

L’atro elemento di cui si è ampiamente trattato è l’attestazione di fattibilità, in considerazione del fatto che il controllo del Tribunale passa necessariamente attraverso la verifica del “filtro attestativo”.

Attestazione introdotta dall’art. 161, comma 3, l.fall., senza tuttavia che si possa ricavare dalla norma alcuna specificazione in merito al contenuto della relazione ed ai criteri che il professionista stesso è tenuto a seguire nell’esercizio della propria attività.

Nel silenzio della legge, alla ricerca di una perimetrazione dei contenuti minimi essenziali, la giurisprudenza di legittimità ha significativamente affermato che la relazione del professionista non può essere equiparata ad una semplice consulenza di parte, ma consistere da un lato nella dichiarazione che certifichi che i dati aziendali sono dimostrati (e quindi trovano riscontro nelle scritture e negli altri documenti dell’impresa) e che la situazione contabile è aggiornata, chiara, veritiera e corretta, e dall’altro nella formulazione di un giudizio professionale prognostico di alta probabilità sulla fattibilità della proposta del debitore.

Detto in altri termini, può affermarsi che il contenuto della relazione vada necessariamente determinato in conseguenza della funzione e dello scopo cui la relazione stessa è chiamata ad assolvere, e cioè: a) assicurare che i creditori siano adeguatamente e correttamente informati sugli esatti termini della proposta, in modo da poter esprimere, attraverso il voto, un consenso informato e consapevole sulla convenienza del concordato; b) permettere al Commissario giudiziale di svolgere adeguati controlli, valutando criticamente tutta la documentazione al fine di elaborare, a sua volta, la propria relazione che illustra ai creditori la realtà imprenditoriale; c) fornire dati e conclusioni al Tribunale in modo da permettergli l’esercizio del proprio controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità giuridica della proposta di concordato

Giunti al momento di trarre le opportune conclusioni restano da analizzare i principi espressi nelle sentenze in commento, che, a ben vedere, si fondano sui temi già esaminati di “causa concreta” e di “fattibilità economica e giuridica”.

Nel concordato preventivo la verifica della fattibilità riservata al giudice, proprio perché ancorata al principio della “causa concreta” deve comprendere necessariamente anche un giudizio di idoneità della proposta e del piano medesimo, che va svolto rispetto all'assetto di interessi ipotizzato dal proponente in rapporto ai fini pratici che il concordato persegue.

Ed infatti, in tale istituto concorsuale la causa concreta è da intendersi "come obiettivo specifico perseguito dal procedimento", con la conseguenza che essa non ha un contenuto fisso e predeterminabile, essendo dipendente dal tipo di proposta formulata, pur se inserita nel generale quadro di riferimento finalizzato al superamento della situazione di crisi dell'imprenditore e all'assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori.

Proprio a motivo della varietà di proposte che è possibile formulare ( atteso che il legislatore della prima riforma ha molto ampliato i confini del piano e le possibilità di creare domande anche articolate) non si può porre a base del giudizio una “summa divisio tra controllo di fattibilità giuridica astratta (sempre consentito) e un controllo di fattibilità economica (sempre vietato)”. Mentre il sindacato del giudice sulla fattibilità giuridica, intesa come verifica della non incompatibilità del piano con norme inderogabili, non incontra particolari limiti, il controllo sulla fattibilità economica, intesa come realizzabilità nei fatti del medesimo piano, può essere svolto nei limiti nella verifica della sussistenza o meno di una manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati, individuabile caso per caso in riferimento alle specifiche modalità indicate dal proponente per superare la crisi.

Il concetto di “causa concreta” va, quindi, interpretato e letto in una prospettiva “funzionale”, secondo la quale il sindacato dei creditori in merito alla fattibilità economica ( cui la stessa è demandata) va intesa come “accettazione dell’alea delle condizioni di mercato”, e non come accettazione di un concordato “ infattibile” , ovvero quel concordato che si prospetti prima facie impossibile da realizzare così da poterlo tacciare di “manifesta infondatezza”; tema che deve dunque essere riservato al Tribunale chiamato a dover sindacare la proposta concordataria ove totalmente implausibile.

Così strutturato non vi è dubbio che il giudizio del Tribunale sarà un giudizio di idoneità e non più un mero giudizio formale (come previsto dalla tesi giurisprudenziale di stampo garantista che attribuiva poteri di controllo della sola legittimità formale in relazione alla regolarità e completezza della documentazione allegata e alla correttezza della procedura.

Se ciò è vero ci si rende agevolmente conto che i due concetti di fattibilità tendono a sovrapporsi ed in qualche misura anche ad annullarsi; ancor più perché, come argutamente evidenziato dalla giurisprudenza di merito già richiamata “la locuzione fattibilità giuridica non sta nella legge”

La distinzione creata si è con il tempo affievolita e ciò sia con riferimento al concordato c.d. liquidatorio, sia a quello definito “ in continuità” anche se per differenti ordini di motivi.

Quanto al primo, le modifiche introdotte dalla L. 132/2015 hanno, all’art. 160 4° comma L.Fall., introdotto nella valutazione giudiziale un aspetto importante della componente economica della fattibilità, tale da trasformarla in presupposto di ammissibilità (e quindi in un qualcosa che rientra pienamente nell’oggetto delle verifiche affidate all’organo giudiziario).

La necessità di vagliare se il pagamento dei creditori sia, o meno, non inferiore al 20% comporta che il sindacato del Tribunale debba estendersi ad una verifica che potrebbe apparire anche di mera fattibilità. Ad una stessa conclusione può giungersi con riferimento al concordato in continuità aziendale, seppur attraverso un diverso percorso argomentativo.

Se si pone mente al contenuto tipico di cui all’art. 186 bis L.Fall emerge che la verifica della fattibilità “in concreto” presuppone un’analisi necessaria ed imprescindibile dei presupposti giuridici ed economici, dovendo il piano con continuità essere idoneo a dimostrare la sostenibilità finanziaria della continuità stessa, in un ambito in cui il “favor” per la prosecuzione dell’attività imprenditoriale si coniuga con una serie di cautele inerenti il piano e l’attestazione, tese ad evitare il rischio di un aggravamento della crisi ai danni dei creditori, al cui miglior soddisfacimento la continuazione dell’attività non può che essere funzionale.

Il che si traduce in un vaglio necessario del Tribunale chiamato a verificare la ragionevolezza delle assunzioni poste a base della continuità, dovendosi estendere tale sindacato a elementi tipicamente “fattuali” quali, ad esempio, la verifica delle risorse finanziarie messe a disposizione per la prosecuzione, o anche la verifica degli elementi economici che consentono, nel piano, di superare la crisi.

Ad oggi, in un dibattito non sopito, l’intervento riformatore del nuovo Codice della Crisi e dell’insolvenza, in attuazione della legge 155/2017, sembra aver delineato un orientamento, ormai pacifico, che, riconoscendo l’estensione dei poteri di sindacato anche alla fattibilità economica, vede, di fatto, il superamento della dicotomia introdotta dall’arresto della Cassazione (seppur lasciando ancora aperti alcuni dubbi applicativi).

L’art. 47 del nuovo Codice ha infatti stabilito che il Tribunale ha il compito di verificare “ l’ammissibilità giuridica della proposta e la fattibilità economica del piano”; così allargando il limite di intervento ed ampliandolo fino a valutare che il piano sia fattibile sia in termini giuridici che economici.

La stessa Relazione di accompagnamento ha previsto infatti “che debbano essere attribuiti al tribunale poteri di verifica in ordine alla fattibilità del piano sotto entrambi i profili, dovendosi perciò ritenere definitivamente superato l’orientamento giurisprudenziale che, vigente il r.d. n.267 del 1942, aveva circoscritto il sindacato del tribunale ai soli profili di fattibilità giuridica…”

Con la conseguenza che, consentendo un potere nuovo di sindacato anche della fattibilità economica, ha profondamente innovato il sistema introdotto dalla riforma del 2006, improntato alla tutela dell’autonomia privata, attuando di fatto, un “ ritorno al passato”.

© Gabriele Nigro

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